La fine del secondo millennio, tra le numerose immagini, metafore e definizioni con cui è stata rappresentata, viene oggi comunemente stigmatizzata nei termini di un passaggio dall'analogico al digitale. Ma si tratta effettivamente di un “passaggio di consegne” tra due differenti modalità di trasmissione, oppure l’era della contaminazione e dell’integrazione (propria della società delle reti) sta investendo i modi stessi, vecchi e nuovi, di trasferire ed assimilare informazione?


Dalle analisi di studiosi e massmediologi, appare lampante che si sia conclusa un'epoca e se ne ne stia aprendo un'altra, caratterizzata dall'ipertestualità, dalla multimedialità, dall’interattività e dallo sviluppo delle grandi reti. Sono queste, dunque, le parole chiave con cui accedere al terzo millennio, parole che invitano a ripensare molti dei principi sociali e culturali relativi ai concetti di spazio e tempo. Ma prima di addentrarsi nella riflessione sui fenomeni connessi a quello che viene definito un “passaggio storico” delle società post-industriali, bisogna esplicitare meglio i termini esatti della questione.


Per analogico si intende un sistema in cui una quantità fisica continuamente variabile (ad esempio, l'intensità di un'onda audio) viene rappresentata da un'altra (ad esempio, la tensione di un segnale elettrico) nel modo più fedele possibile. È il sistema dell’imitazione, dell’opposizione originale/falso, dell’imprecisione. È digitale invece un sistema o dispositivo che sfrutta segnali discreti per rappresentare e riprodurre segnali continui sotto forma di numeri o altri caratteri. È l’universo nel quale le informazioni vengono rappresentate da stringhe di 0 e 1, attivo/inattivo, alto/basso, vero/falso.


L’analogico che, come spiega la parola stessa, tende ad evidenziare il legame che esiste tra i fenomeni, secondo grandezze continue che subiscono progressive trasformazioni, è custode e testimone del tempo, della tradizione; il digitale è invece il regno dei caratteri discreti, discontinui, un mondo dove le cose non avranno sfumature. Saranno o 0 o 1, dentro o fuori, bit o non-bit.


La digitalizzazione dell'informazione ha permesso, negli ultimi anni, di canalizzare suoni, immagini e testi, in reti computerizzate e comunicanti, rendendo così possibile ricevere e trasmettere informazioni multimediali grazie alla facilità di utilizzazione delle diverse interfacce, all'organizzazione ipertestuale, alla diffusione veramente planetaria dell'informazione.


Nella parabola della sofisticazione di ciò che abbiamo intorno non si inscrive solo un processo di miglioramento tecnologico, ma trovano spazio i geni nuovi di un cambiamento e di un ripensamento dell’intero modo di concepire il reale, le sue cose e gli usi che ne facciamo. Il passaggio dall’analogico al digitale non riguarda solo ed esclusivamente il mondo della tecnologia ed i suoi fruitori, non solo i massmediologi e quanti, in questi anni, si sono occupati di vecchi e nuovi media. Parlare di analogico e digitale, in fondo, significa oggi parlare delle due esclusive modalità di produzione e fruizione del flusso comunicativo (o forse, delle più importanti categorie di gestione e comprensione della realtà).


È a questo proposito, dunque, che sarà opportuno scindere le coordinate di una riflessione sull’argomento in 3 livelli di analisi e pertinenza:
· un primo livello attinente alle dinamiche del sistema produttivo più generale;
· un secondo livello relativo ai percorsi di integrazione e differenziazione del sistema mediale;
· infine, un’ultima dimensione, attenta alle ripercussioni verificatesi nel sistema sociale e culturale delle comunità investite dall’avvento delle ICT’s.


Per quanto attiene la sfera produttiva, va detto che la rivoluzione digitale parte da molto lontano, trovando prodromi in tempi insospettabili. Essa va letta come un processo che non ha trovato una sua realizzazione fulminea con l’avvento del bit, ma attraverso un decennale percorso, alimentato dalle necessità che il sistema produttivo via via esprimeva. Già il telegrafo e le prime macchine computistiche funzionavano secondo una logica digitale, pur non possedendo la tecnologia del bit. Esisteva, insomma, già una prima esigenza, nella catena produttiva, di integrare le macchine “per fare” alle macchine che “sapessero fare”.


Ovviamente ci si potrebbe domandare: se si era così vicini dall’avere una trasmissione digitale, perché non si è proseguiti in questa direzione? Per prima cosa, la tecnologia non era stata messa a punto per inviare segnali abbastanza velocemente da poter avere qualsiasi tipo di informazione nella sua interezza; inoltre, ancora mancava la concezione di informazione come “bene”, alla stregua dei manufatti industriali.


L'obiettivo di fondo, identificato da alcune avanguardie della ricerca fin dagli anni Trenta del secolo trascorso, è quello di riorganizzare la conoscenza in modo sempre più efficiente, semplificando la selezione delle notizie in un mondo sommerso dalle informazioni. In una estrema opera di semplificazione del processo, si potrebbe affermare che quell'obiettivo utopistico ha generato gli ipertesti, il pc, Internet.


Si è dovuto attendere l’invenzione del chip, dei primi computer e della rete Internet perché il bit diventasse davvero una rivoluzione. Rivoluzione spinta e alimentata dagli interessi congiunti dell’industria militare (negli anni Cinquanta) e dei mondializzati commerci contemporanei. Il bit è stato allo stesso tempo causa e conseguenza del fenomeno della mondializzazione. Da una parte il progresso tecnologico ha dischiuso potenzialità impensabili sia dal punto di vista dell’accrescersi dell’intelligenza delle macchine, sia dal punto di vista della trasformazione, elaborazione e trasmissione delle informazioni. Dall’altra le esigenze dei governi e delle grandi aziende hanno liberato fondi ingenti per la ricerca e la sperimentazione di queste tecnologie.


Fino a ieri (finché c'era la guerra fredda) erano i militari a finanziare le ricerche di punta: caschi per la realtà virtuale o sistemi avanzati per l'addestramento dei piloti. Oggi è cambiato tutto: è l'industria dell'entertainment a finanziare i settori più avanzati. Le ragioni di questa tendenza sono evidenti. L'industria del divertimento può sperimentare in tempi rapidi sempre nuove applicazioni su una platea di giovanissimi, che sono certamente i più adatti ad apprendere tecniche avanzate. I videogiochi diventano così uno strumento di sperimentazione di massa di tecniche di interazione uomo-macchina, che poi possono essere riutilizzate in altri settori: dall'istruzione a distanza al commercio elettronico, per esempio.


La rivoluzione delle comunicazioni segue quella industriale e modifica il corpo stesso del suo essere: negli anni Ottanta e Novanta, si assiste così al passaggio da un interfaccia statica ad un'interfaccia multimediale dell'informazione.


Il sistema mediale ingloba e subisce, al tempo stesso, le nuove acquisizioni digitali, ridefinendo se stesso in virtù delle incredibili potenzialità tecniche dischiuse. In effetti, quelli introdotti dalle ICT’s, solo latamente possono essere considerati “nuovi” media: fatta eccezione per Internet, si è in presenza di un’evoluzione e di una ridefinizione dei vecchi mezzi di comunicazione, in parte digitalizzati. I media “primitivi” come la stampa, la radio, la TV potevano solo "essere visti". Il broadcasting non consente interazione con i contenuti né tanto meno con la loro fonte, quindi può solo offrire una fruizione passiva dell'atto comunicativo. Resta impossibile produrre informazioni, essere all'interno del media, interagire, essere visti. L’architettura logico-tecnica many to many di Internet, consente all'utente di avere pieno controllo sulla comunicazione telematica, trasformandolo da spettatore a produttore di informazione. Internet viene incontro al bisogno di visibilità delle persone perché conferisce ad essi la piena autonomia della fruizione del mezzo stesso. Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione stanno modificando radicalmente anche il rapporto di interazione tra producer e consumer. Esse non si configurano più solo come strumenti per rendere più efficienti attività definite e quasi immutabili (le procedure, i flussi di lavoro) ma rappresentano prima di tutto delle opportunità, dei fattori abilitanti che rendono possibili il cambiamento dei tradizionali modi di produrre, di distribuire di organizzarsi, di scambiare e condividere il sapere, di cooperare: ciò che Levy ha chiamato “intelligenza collettiva” (1996).


La cultura della comunicazione, sconvolta dall’apparire di Internet, si ristruttura sullla base di tre elementi fondamentali che informano l’agire sociale e la trasmissione della conoscenza: multimedialità, ipertestualità e interattività. Il link diviene la metafora del nostro quotidiano rapporto con la realtà. L’avvento delle ICT’s fa registrare fenomeni di cambiamento nei processi comunicativi e nell’industria culturale. La digitalizzazione si è imposta come sistema dominante perché da un lato rende più economica la produzione industriale delle informazioni e, allo stesso tempo, espande i mercati e i confini della loro fruizione. L’era analogica era caratterizzata da spazi confinati all’interno dei limiti imposti dai singoli mezzi di comunicazione e dai costi di produzione e di trasmissione. Quella digitale scopre i mercati globali e li raggiunge attraverso percorsi rizomatici. Le vecchie agenzie dell’informazione si trasformano anche in versioni digitali, entrando per di più in competizione con il prosumer della Rete. Si scontrano globalizzazione e segmentazione estrema dell’informazione: le reti satellitari consentono una fruizione planetaria dello stesso segnale trasmesso, ma se guardiamo ad esempio alla TV digitale ci si rende subito conto della estrema tematizzazione dei contenuti veicolati: continuità e discontinuità, unificazione e targettizzazione, comunità virtuali e pay-per-view isolazionista. Come afferma Thompson (1998), pur non riferendosi esplicitamente alle nuove tecnologie, si è in presenza di un duplice fenomeno: da una parte, si assiste ad una globalizzazione delle telecomunicazioni, dall’altra ad una localizzazione ed individualizzazione della fruizione dei contenuti. Solo la discontinuità del digitale rende possibile la creazione di mondi collegati: la continuità della cultura contemporanea nasce dalla trasmissione discreta delle sequenze informatiche binarie. Con la nascita delle grandi rete di fibre ottiche l’informazione di massa diventa il suo opposto, cioé informazione personalizzata.


L'estensione della interattività e l'unificazione del medium (il pc-tv e la tv-pc), ovvero ciò che da più parti viene definita come “convergenza”, completano il quadro e insieme fanno saltare in aria il tradizionale sistema dei media. All’interno della società della connessione, l’uomo digitale riesce a far convivere codici e linguaggi diversi all’interno della stessa macchina. Sempre la stessa, ma di volta in volta capace di implementare funzioni e utilità differenti. L’etica della discontinuità viene a configurarsi come causa e conseguenza del linkage quotidiano che l’uomo ha adottato come suo schema di pensiero. La traduzione di questa nuova struttura cognitiva è la convergenza di informazioni diverse sullo stesso supporto nonché l’alimentazione di diversi supporti attraverso le medesime informazioni. E così ritroviamo il frigorifero nel computer e quest’ultimo nella lavatrice, così come, l’industria del telefono in quella delle canzonette: il sogno fatto carne di Negroponte.


Stiamo infatti già assistendo all'estensione della interattività e all'unificazione del medium: processi che completano il quadro e insieme ridefiniscono il tradizionale sistema dei media e delle reciproche relazioni che la storia delle comunicazioni ha ciclicamente attraversato. Siamo dunque di fronte a un vero e proprio rimescolamento, molto più rilevante in quanto investe simultaneamente molti aspetti: le forme di comunicazione, i linguaggi, la mentalità corrente. Un unico mezzo per infinite funzioni, il concetto di multimedialità o meglio ipermedialità si estende anche agli oggetti fisici, non più solo al diverso approccio verso l'organizzazione dei contenuti. Con le modalità di trasmissione analogiche, diversi tipi d'informazione non potevano viaggiare insieme sullo stesso supporto ed essere decodificati dal medesimo terminale. Il segnale radio di un televisore era infatti totalmente diverso da quello di un telefono mobile e, per essere tradotto in immagini, aveva bisogno di circuiti dedicati assenti in un telefono.


L'adozione di una rappresentazione digitale in luogo di quella analogica, nel video, nella musica, nella stampa e nelle telecomunicazioni in generale, potenzialmente trasforma qualunque forma di attività umana di tipo simbolico in software, e cioè in istruzioni modificabili per descrivere e controllare il comportamento di una macchina. L'utente di fine secolo, la cosiddetta generazione Napster, trova la cifra della propria formazione culturale e della propria interazione con la realtà circostante nell'interfaccia e nell’ipertesto. Si tratta di due elementi che hanno cambiato radicalmente il nostro modo di rapportarci all'informazione generando un coinvolgimento continuo da parte dello spettatore, tanto da rendere questa parola desueta. Chi utilizza Internet è un utente che modifica l'enorme flusso d'informazione, secondo le sue esigenze, per il semplice fatto che se le costruisce attingendo da un archivio comune e spesso gratuito.


Questo è il risultato dell'incontro tra arte e scienza, della formazione di una nuova cultura che ha carattere popolare e si basa sulle conseguenze di una tecnologia che ha invaso il nostro ambiente culturale e promuove un processo di sviluppo automatico sostenuto dalle stesse innovazioni tecnologiche e da un permanente desiderio di cambiamento. La tecno-cultura realizza in parte la globalizzazione di una nuova generazione a cui è permesso l'accesso alle merci tecnologiche high-tech, e la conseguente familiarità con gli strumenti utilizzati, ma anche un dialogo con le derive culturali che contribuiscono a sviluppare nuove dinamiche all'interno del pubblico discorso. L'epoca digitale comporta, dunque, una diversa percezione delle cose, una percezione non-analogica che è molto più vicina al sentire tipico delle arti. Nel paesaggio mediale, nel villaggio globale, ogni comunità produce segni e significati, ogni cultura che si rispetti si fonda sincreticamente su un insieme di esperienze e di valori condivisi. Attraverso l'uso delle nuove tecnologie si va sempre di più verso una società sintetica, sintetica in diverse accezioni; innanzitutto si intende per comunicazione sintetica la velocità, l'accelerazione degli scambi comunicativi. Ma per "sintetica" intendiamo anche la sintesi di apparecchiature diverse che fino a poco tempo fa erano considerate assolutamente non reciprocamente interferenti e che con l'avvento delle nuove tecnologie possono, in realtà, interagire. E, ancora, "sintetica" anche nel senso di ricreazione di immagini, di oggetti fondamentalmente molto vicini all'originale: il sintetico si contrappone al reale o all'oggetto vero, all'oggetto-punto e alla riproduzione dell'oggetto in rapporto alla vecchia riproduzione delle tecnologie tradizionali (Bettetini, 1998).


La digitalizzazione crea un testo di dimensioni planetarie, che si sviluppa senza soluzione di continuità (De Carli, 1997), un ipertesto che nasce dai legami che si instaurano tra i vari testi immessi nella rete. Internet è la nuova "semiosfera" (Lotman, 1997), che come una pellicola, una sottile patina di segni e codici linguistici avvolge la "biosfera", il pianeta-terra, "interamente fasciato di reti telematiche". A dispetto di quanti individuano una degenerazione della "società dell'immagine", Internet "vive" prevalentemente di comunicazione scritta. Ma la comunicazione a stampa, la "galassia Gutemberg", è fatta di carta, inchiostro, di fisicità, è immersa nel mondo materiale di cui subisce le leggi della creazione come dell'usura del tempo. Internet non sarà certamente un'intelligenza artificiale che ha acquisito una propria personalità; ma se è vero che il bit, come scrive Pancini , tende a divenire "quasi una nuova Weltanschauung dell'uomo prossimo venturo", sta nascendo progressivamente un altro mondo, fatto di quelli che Augé chiama "non-luoghi" (1993), che nondimeno vengono avvertiti nella loro "surrealtà" dai nostri sensi: sullo schermo dei computer c'è un mondo che non esiste e che comunque noi percepiamo come reale.


La commistione tra reale e virtuale non deve però trarre in inganno: fin quando si è immersi nel Cyberspazio, è percepibile un abbattimento netto della distinzione centro-periferia, ma non appena oltrepassata la sua soglia, reimmessi nel mondo reale, ci si accorge delle distanze abissali (e ancora analogiche) che separano dai luoghi materiali ed immateriali.


L’equivoco contemporaneo risiede proprio nella confusione tra due mondi ancora distanti: quello della conoscenza e quello della programmazione. Il digitale si configura come una possibilità di rappresentazione del reale, ma pur sempre come una modalità di semplice trasmissione dei contenuti. Fornire i contenuti è (e resterà sempre) compito dell’homo analogicus.


Alvise Bompensa - Ugo Esposito - Lorenzo Pierfelice