L'oggetto è il miglior portatore del soprannaturale 
(...) la materia è molto più magica della vita. 
Roland Barthes  

 
1. Le radici del consumo di massa: multidisciplinarità degli approcci. 
 
È ormai riconosciuto, soprattutto nell’ambito delle scienze sociali, che le modalità di consumo da parte di singoli o gruppi portino con sé un insieme di significati che va ben oltre la semplice acquisizione di beni materiali ed immateriali. Dai primi decenni del secolo scorso fino ai giorni nostri, le forme di consumo (ed i suoi attori principali) hanno subito mutamenti ed assunto valori e significati cangianti, come il tessuto sociale all’interno del quale si inscrivevano. Sono cambiate le merci, le routines produttive, gli apparati logistici, le modalità di fruizione: è cambiato il sistema di significati che il prodotto/segno veicola. 

 
Il consumo è un fenomeno sociale, quindi, e non può essere compreso se lo si colloca in maniera asettica all’interno di vecchie categorie e nella logica, ormai superata, dei comparti stagni del meccanicismo di natura economica. Parlare di consumo di massa, di consumo individuale significa, in fondo, raccontare i mutamenti intercorsi nelle moderne società occidentali, correre lungo il filo dell’industriale e del post-industriale, del moderno e del post-moderno. Vuol dire, in definitiva, ascrivere il consumo a categoria significativa della collettività, e in quanto tale a sistema di comunicazione tra gli attori e i gruppi di questa collettività. 

 
Il concetto di consumo si è evoluto parallelamente alle trasformazioni sociali ed economiche avvenute nell’ultimo secolo in Europa e negli Stati Uniti, con le dovute differenze e gli inevitabili ritardi generazionali di un occidente non ancora globalizzato. Il proliferare di approcci e di contributi multidisciplinari intorno al concetto di consumo testimonia, al tempo stesso, sia la complessità del fenomeno sia la sua duttilità ad essere indagato da diversi punti di vista. In effetti, da uno sguardo d’insieme, il dibattito sul consumo può risultare ulteriormente arricchito, non solo dalla sociologia dei consumi, ma anche da approcci di tipo socioantropologico e semiotico. 

 
Sul versante sociologico è già facilmente distinguibile una partizione tra: 
· un approccio micro-sociologico, più centrato sul comportamento del consumatore ed ancora fortemente legato al paradigma della scelta razionale, di chiara matrice economica; 
· un approccio macrosociologico, che può godere di uno sguardo prospettico più ampio e che guarda con interesse al contesto sociale di riferimento e ai meccanismi di differenziazione/integrazione all’interno di esso. 

 
Sempre nell’ambito delle discipline sociali, si individuano altri due tipi di approcci allo studio del consumo: 
· un approccio socio-antropologico, che si concentra preminentemente sulle valenze culturali legate al comportamento di consumo; 
· un approccio semiotico, che riflette sul sistema di significati veicolati dalla merce/segno. 

 
E’ tuttavia facilmente riscontrabile in molte teorizzazioni che si sono succedute, la propensione a ripartire il campo di riflessione in due differenti prospettive: da una parte, una concezione del consumo come foriero di emancipazione democratica, nell’equazione automatica “benessere=democrazia”; dall’altra una visione cinica e disincantata, che concepisce il fenomeno come struttura regolata da logiche di controllo e di riproduzione del potere. Si è insomma riproposta la solita dialettica tra apocalittici ed integrati , tuttavia, in questa sede si tenterà di evidenziare le coordinate storiche e sociali che hanno segnato il percorso e l’evoluzione delle dinamiche di consumo, con particolare riferimento alla realtà italiana. 

 
Data la vastità dell’argomento, si prenderanno in considerazione solo alcune ipotesi teoriche tese ad esplorare e comprendere le valenze sociali e semantiche dell’agire di consumo. 

 
Il consumo, in quanto “agire umano, al tempo stesso individuale e sociale, dotato di senso, che si fonda su un processo di acquisizione di beni e servizi, attraverso uno scambio di denaro,” (Sorice, 1995) diviene tema centrale nelle teorie sulla società a partire dalla metà del diciannovesimo secolo. In quel periodo infatti si compie il passaggio da un’economia caratterizzata da derrate agricole e manufatti artigianali alla produzione in serie. L’industria chiave, e simbolo della produzione di massa, è stata l’industria degli autoveicoli e in particolare dell’automobile. Essa aprì un mercato rilevante per i prodotti siderurgici e metalmeccanici, per la gomma, il vetro, il petrolio. Provocò la ristrutturazione degli insediamenti urbani secondo direttrici periferiche e collegò i mercati rurali e urbani; stimolando la formazione di un settore economico "indotto" di industrie, organizzazioni commerciali e servizi connessi. Mise, inoltre, in moto una spesa pubblica consistente (strade, infrastrutture dell’urbanizzazione, ecc.); contribuendo a trasformare sostanzialmente i modi di vita precedenti. Prendendo l’automobile come indice della "rivoluzione dei consumi", salta subito all’occhio la rilevante sfasatura tra Stati Uniti ed Europa: la piena espansione dell’industria automobilistica si ha negli Stati Uniti tra le due guerre, in Europa soltanto a partire dagli anni Cinquanta. 

 
Già sul finire dell’800 in Europa, parallelamente alla metamorfosi determinata dal processo di rapida industrializzazione, si assiste all’emergere della nuova classe sociale borghese e all’avvio di un processo di forte stratificazione della società in ceti, sulla base della ricchezza posseduta, cui corrisponde una progressiva differenziazione dei comportamenti sociali, tra cui l’agire di consumo. 

 
La prima teorizzazione sulla capacità di mediazione simbolica dei beni risale a Marx che definì la differenza tra “valore d’uso” e “valore di scambio” di un oggetto, dove il primo è legato all’effettivo utilizzo del bene mentre il secondo gli viene attribuito dal mercato in base ad una sorta di percezione sociale del suo valore. Al di là degli elementi che costituiscono le parti strutturali e sovrastrutturali del concetto di consumo, già Marx pone le basi per l’elaborazione weberiana del concetto di stile di vita, concependo il consumo come un atto sociale. 

 
Weber, infatti, è il primo ad ipotizzare un legame tra la strutturazione del sistema sociale e lo stile di consumo, mediante l’introduzione del concetto di “condotta di vita”, inteso come “quantità di onore e distinzione a cui un individuo può aspirare attraverso un comportamento di consumo”.

La condotta di vita weberiana funziona da indicatore distintivo dei ceti. E la dialettica, la tensione, tra individuazione e omogeneizzazione del soggetto, tra il consumo di massa e l'individualismo, tra l'eccentricità (libertà di appropriarsi di segni) e l'atteggiamento blasè (indifferenza di fronte al loro carico di significazione), viene già colta nella speculazione di Simmel, per il quale la Moda realizza perfettamente lo spirito della società che si lascia per la prima volta travolgere dai beni di consumo. La contrapposizione e l’assoluta inscindibilità tra massa e individuo e quindi tra consumo omogeneizzante e consumo come fattore distintivo individuale è già perfettamente presente nello spirito che anima le grandi metropoli europee di fine Ottocento: ciò che libera l'individuo, il denaro, il suo spirito che permea tutto il reale, contemporaneamente dissolve lo stesso individuo, lo omogeneizza.

È la tragedia del moderno che altri non è che "una tragedia senza Eroi” (Simmel, 1911). Dentro tale contesto, la moda è il medium perfetto per analizzare tale contraddizione, è "la palestra della conquista dell'individualità, e quindi della distinzione". Il teatro di tale tragedia è necessariamente la metropoli: è quella Berlino che nell'ultimo trentennio dell'Ottocento moltiplica i suoi abitanti e il suo tessuto urbano, è quella Parigi che così bene Baudelaire e Rilke avevano dipinto nelle loro opere, ma il consumo indotto dalla moda ha un posto cruciale perché concilia la dicotomia tra ciò che è distinto e ciò che è omologato. Simmel ritiene che le classi inferiori tendano ad imitare quelle superiori e quando questo avviene, esse cambiano codice: egli individua in questo meccanismo il fattore di un dinamismo incessante. Spesso, infatti, le classi sociali "alte", soprattutto con lo sviluppo dei massmedia (cinema e musica su tutti) cercano nelle classi "basse" degli status symbol magari da reinterpretare, e i segni distintivi di una certa classe si mescolano con altri, fino a rendere quasi indistinguibili le une dalle altre.

E pensiamo anche alle sottoculture metropolitane contemporanee che grazie ai talk show conquistano la ribalta innescando, grazie alla rapidità con cui vengono messe in moto le leve del marketing strategico, un fenomeno di consumo di massa nuovo, edulcorato dai tratti forti delle origini e più consono al consumatore medio: es. anni ’90 la moda grunge. 

 
Anche Veblen (1899), teorizza una connessione tra consumo e meccanismi di stratificazione sociale. Esso diventa un’attività essenzialmente competitiva che punta all’ostentazione, cioè all’esibizione della ricchezza ed è simbolo funzionale della comunicazione della differenziazione sociale. Veblen ha individuato nella natura vistosa e ostentativa del consumo la sua principale caratteristica; Baudrillard ha aggiunto che la natura ostentativa della merce è permessa dal suo valore/segno. Per Veblen la struttura piramidale degli status vede al vertice le classi più agiate, che possono permettersi gli sprechi e il consumo vistoso e poi via via tutti le altre, in un sistema di imitazione e di confronto reciproco che segue un processo essenzialmente alto-basso. 
 
Questo sistema di interazione tra gli strati della società, questo sistema che vive di continue saturazioni e diffusioni delle tendenze, presuppone, in sostanza, una sorta di continua lotta simbolica sull’asse verticale della società (trickle effect). 

 
2. Oltre le cose. Il consumo come simbolo. 

 
Nel nostro Paese, fino agli albori degli anni Sessanta, la concezione del consumo è stata strettamente vincolata ad una logica anticonsumistica sviluppata dalle due subculture dominanti, il cattolicesimo e il marxismo, che promuovevano un etica del risparmio. Come scrive Ragone (1974) “se nel dopoguerra i consumi sono limitati, questo dipende sia dal fatto che i redditi in genere sono bassissimi, sia però dal fatto che non esistono modelli di riferimento capaci di liberare il comportamento di consumo dai suoi vincoli tradizionali” .

 
Parallelamente, i beni cominciano ad entrare nella sfera del simbolico e a giocare un ruolo di socializzazione, ossia diventano un metro di valutazione e di riconoscimento dell’appartenenza sociale. All’interno degli schemi della modernità, ossia dell’etica del dovere borghese, della sua separatezza, del rigore morale e antiestetizzante, l’Italia, in ritardo rispetto ad altre realtà occidentali, sviluppa in questi anni il suo modello distorto: 
· si sviluppano i consumi non necessari; 
· si ha un sovradimensionamento dei consumi privati rispetto a quelli pubblici; 
· si registra uno squilibrio tra il nord e il sud del paese; 


Non si deve tuttavia dimenticare che la società italiana è ancora legata a quelle che Fabris (1995) definisce come le caratteristiche della società contadina, ovvero autoconsumo, spirito di sacrificio ed etica del risparmio. In realtà nell’immediato dopoguerra sono le classi produttive, rivitalizzate dal capitale americano, ad avviarsi verso un consumo sempre più libero e allo stesso tempo fortemente veicolato dalle immagini proposte dal nascente media-system.

L’imitazione e la rincorsa ai beni di prestigio si determina primariamente a livello individuale, ossia nel processo di costruzione della personalità del soggetto, e soprattutto, sull’asse orizzontale, ossia nel contatto quotidiano con gli altri soggetti all’interno della società. Ed inoltre il processo si determina anche in relazione ai modelli proposti dai mezzi di comunicazione di massa. I valori di riferimento non sarebbero più la rispettabilità e l’onorabilità, ma il prestigio e il successo individuali. 

 
Sembrerebbe, quindi che gli stili di vita che iniziano ad affermarsi e i modelli di consumo veicolati dai media irrompano sulla scena umana, spazzando via vecchie categorie concettuali come quella di classe. Ma il concetto di classe viene rispolverato da Bourdieu (1979) e messo in relazione alla sua manifestazione simbolica, per spiegare le scelte di consumo. Per l’autore francese la classe sottende anche una cultura propria, per la maggior parte inconscia, che attraverso la psicologia del soggetto influenza i suoi bisogni e i suoi gusti. Tale visione però dovrebbe prevedere una morale rigida interna alla classe, capace di influenzare i comportamenti dei soggetti e di sanzionare i devianti: una situazione riscontrabile in altre epoche. 

 
Nella concezione di consumo come indicatore di status sociale l’acquisto di particolari merci corrisponde all’acquisizione di un preciso stile di vita. Come nota infatti Dell’Aquila (1997): “L’avanzata delle classi medie, la terziarizzazione della popolazione attiva, l’aumento del potere d’acquisto e la maggiore dispersione dei redditi nelle categorie socio professionali (che le rende delle variabili esplicative poco rilevanti) comportano un’evoluzione sociale verso una società in cui sono gli stili di vita a contare di più”. 

 
A partire dagli anni Sessanta si sviluppa una nuova prospettiva “culturale” della società dei consumi che inquadra il fenomeno per la valenza sociale e simbolica in sé dell’agire di consumo, e non solo in base al sistema delle differenze sociali (Alberoni, 1968). I beni assumono un valore simbolico che riflette la struttura delle relazioni sociali di una determinata cultura, per cui l’atto di acquisto rappresenta “l’adesione o il rifiuto dei modelli di riferimento, di comportamento, di valore, di stili di vita, che si collegano all’adesione a particolari valori culturali, oltre che a specifici gruppi sociali.” (Secondulfo, 1994, p.39). 

 
Il passaggio dal paradigma materialista a quello comunicativo, quindi, si compie con l’avvento dello strutturalfunzionalismo (in particolare nelle opere di Levy Strauss). Per la teoria strutturalista gli oggetti scambiati nell’atto di consumo assumono un valore simbolico attraverso il quale si attua il passaggio dalla natura (bisogni fisiologici) alla cultura (bisogni indotti). 

 
Con il consumo non si realizza solo uno scambio di beni ma vere e proprie informazioni più significative ed espressive dei linguaggi verbali stessi (M. Douglas, 1984). Il sistema di consumo insomma va inscritto all’interno del più vasto sistema culturale di una società: non si potrà mai spiegare la domanda di un bene basandosi soltanto sulle sue proprietà materiali, ma interrogandosi soprattutto sulle valenze simboliche apportate dal sistema comunicativo su quel bene. 

 
Lo stile di consumo finisce per sovrapporsi allo stile di vita perché ne rappresenta l’epifenomeno più vistoso e concreto, destinato a comunicare un profilo personale, sociale e valoriale, e funzionale all’identificazione, sia di chi lo manifesta, sia di chi lo osserva. 

 
La prima ondata consumistica che investe l’Italia negli anni Sessanta è rivolta soprattutto all’acquisto di beni durevoli che incrementano la qualità della vita delle famiglie. L’impennata dei consumi è frutto di una situazione economica contingente, che aveva visto il nostro paese raddoppiare la sua produzione industriale tra il 1959 e il 1963 e, di riflesso, aumentare il reddito discrezionale a disposizione delle famiglie. Per la prima volta si diffonde una “cultura del consumo”, la merce comincia a ricoprire un ruolo socializzante, ne è segno l’aumento della domanda dei cosiddetti “beni di cittadinanza” (Alberoni, 1968), cioè di quei prodotti che sono indice dell’appartenenza alla nuova comunità urbana. In questi anni l’agire di consumo è in gran parte correlato alla stratificazione sociale, per cui si manifesta attraverso modelli di comportamento e di possesso dei beni. Nello stesso periodo, la tv amalgama la nostra società ed è in grado di colmare il vuoto culturale che impedisce l’affermazione definitiva di maturi comportamenti di consumo. 

 
Nel 1957, Carosello, a soli tre anni dall’ingresso della “scatola magica” nel Paese, già rappresenta un momento di aggregazione e di fruizione di massa del nuovo mezzo: i prodotti, attarverso la pubblicità romanzata, entrano nelle case. La tv diviene il volano del nuovo consumo. Cominciano ad affermarsi categorie di beni fino a pochi prima non percepiti come tali, portatori di nuovi significati per i consumatori. Il consumo si apre alle classi medie: è l’apice, ed anche il punto di svolta, del consumo di massa. Quella stessa pubblicità che aveva fatto scoprire i prodotti, omogeneizzando i consumi, aveva posto anche le basi, involontariamente, della crisi della massificazione attraverso il linguaggio di marca. 

 
Sul versante teorico, è proprio l’affermazione della marca a dare lo spunto alla riflessione semiotica, che omologa il consumo ad un linguaggio, in cui gli elementi traggono significato anche dai rapporti reciproci all’interno del sistema. Uno stile di vita è paragonabile ad un testo composto sulla base di regole grammaticali e sintattiche che selezionano le combinazioni “giuste” e “sbagliate” dei beni, secondo valori di uno specifico gruppo sociale (J Baudrillard 1976). Baudrillard in qualche maniera scavalca Marx, spingendolo dove egli stesso non aveva osato andare. La merce divenuta segno puro, in quanto non più ancorata ad un referente, e quindi ad un suo uso, acquista valore solo nella misura in cui è posta in relazione con tutto il "reale" (le altre merci). Il suo "uso", diciamo, è dissolto nella neutralità del codice-medium denaro, che si erge a principio di equivalenza universale. E' un processo in qualche maniera irreversibile, maestoso, spettacolare ed espansionista: si compie lo show dell'Occidente. 

 
Il consumo diviene significante puro, alla portata di tutti, perfetto e già morto il giorno dopo il suo trionfo, pronto ad essere sostituito da un altro oggetto-segno altrettanto perfetto che trae, in un corto circuito tautologico, la sua legittimazione solo dall'essere alla moda. Secondo questa accezione, lo stile di consumo sussume e organizza una serie di oggetti creando, attraverso delle relazioni, un codice sociale che permette la comunicazione dei valori di un gruppo, con la duplice funzione di favorire la condivisione all’interno del gruppo e renderlo visibile e riconoscibile dall’esterno. La semiotica impone il fattore “comunicazione” come elemento centrale all’interno del dibattito sul consumo. Quest’ultimo, infatti, può essere letto in termini di sistema per la comunicazione: il consumo è un linguaggio non verbale, un sistema generalizzato di scambi, a cui si è accordata la funzione essenziale di veicolare significati e valori di natura sociale e culturale. 

 
La contestazione del ’68 è servita soprattutto a comunicare al “vecchio mondo” la riluttanza verso forme di omologazione standard. Non era, il Sessantotto, il regno del luddismo più scellerato verso la macchina produttiva occidentale, bensì un modo di trasmettere un’esigenza di altro, anzi di altri significativi. Si chiedeva una maggiore attenzione agli universi che, pur esistenti, erano considerati più che altro devianti dalla macchina sociale, e che spesso si inscrivevano nei gangli delle sotto-culture urbane. La contestazione non era quindi al consumo, ma all’idea che esso dovesse essere “di massa”, fortemente condizionato dai limiti e dalle imposizioni della monolitica società pre-sessantottina. Le origini del post-moderno, per quanto ancora nebulose, andrebbero individuate, allora,nella richiesta di pluralismo e di spazi della società del dopo-boom, allorquando cominciano a porsi le basi per l’affermazione di mode, più che di una moda. 

 
Negli anni Settanta la contestazione ai valori tradizionali e borghesi, anche se circoscritta ad una ristretta èlite intellettuale, investe il consumo, che viene agito in forme trasgressive e/o alternative. L’industria culturale si appropria dei modelli della contestazione e ne fa alimento per nuove merci e nuovi stili. Nel frattempo, l’industria tenta di ristrutturarsi, di abbattere i costi di produzione e di cogliere le esigenze dei nuovi pubblici. 

 
3. Dal consumo individualista di massa alla personalizzazione del consumo. 

 
Se gli anni Sessanta si contraddistinguono per un “consumo delle novità” dalle forti tendenze omologatrici e ostentative, negli anni Settanta comincia a consolidarsi un “consumo della distinzione” fondato sulla razionalità espressiva personale (Ragone, 1987). L’atto di consumo non si definisce più in rapporto alla dimensione sociale, ma diviene un elemento di distinzione interindividuale. 

 
Ciononostante, la situazione cambia ulteriormente. Dopo le crisi petrolifere e la compressione dei consumi dovuta alla recessione internazionale, gli anni Ottanta salutano l’avvento di un nuovo boom economico, ben diverso da quello di vent’anni prima. Le esigenze che spingono al consumo non sono più di tipo collettivo e sociale, ma sono squisitamente individualistiche. Il soggetto non vale più in quanto inserito all’interno della sfera familiare, ma in quanto “nodo” di una rete sociale che si regge, anche e soprattutto, su un universo simbolico costruito intorno alle merci. Il singolo socializza coi propri simili (tribù metropolitane e yuppies). 

 
E’ ciò che Christopher Lasch chiama “cultura narcisistica” (1981). “Al centro del consumo non c’è più la famiglia, né il sociale, anche se la scoperta del piacere della dimensione individuale assume subito delle modalità che producono una paradossale adozione di massa della cultura del privato, probabilmente a causa della presenza di una necessità molto sentita socialmente di sostituire un sentimento di identità collettiva sulla via del declino” (Codeluppi, p. 28). La progressiva perdita dei vincoli sociali tradizionali coincide con una nuova condivisione di “stili di vita” che si basano su comuni rappresentazioni sociali e valoriali. Livolsi (1993) e che “l’identificazione non è più in gruppi o in ideologie, ma più semplicemente in condivise rappresentazioni del sociale, declinate in appartenenze ideali o immaginate possibili, se non in ancora più semplici modi di essere e di vivere” (Livolsi, 1993, p.51) .

 
Negli anni Ottanta l’oggetto comunica di per sé uno status sociale: le merci si dispongono lungo una sorta di scala di valore, all’interno di una dimensione verticale del prestigio. Sono gli anni dell’affermazione delle tv commerciali, delle tele-promozioni, dei serial americani che danno il via libera definitivo alla sedimentazione del modello culturale e commerciale statunitense. Sono gli anni della Marlboro’s way of life, della Milano da bere, della paradigma “mitico” (Seguela, 1989): prima ancora di essere comunicati per le loro qualità materiali, i prodotti vengono semantizzati dalla pubblicità e dal marketing, costruendo un legame tra i desideri dei consumatori e la merce. I responsabili del marketing ricorrono allo studio degli stili di vita per definire dei microsegmenti di mercato cui indirizzare le strategie di vendita attraverso messaggi pubblicitari efficaci. 

 
Sarebbe comunque errato considerare l’evoluzione del comportamento di consumo nei termini di una transizione da un consumo di massa ad uno individuale. 

 
A cavallo tra gli anni Ottanta ed i Novanta, infatti, è possibile individuare una dei più significativi mutamenti nell’azione di consumo. Si passa infatti dall’edonismo vuoto e cinico degli anni Ottanta, ad una nuova domanda di etica sociale, nella ricerca di assoluti meno materiali (Weil, 1993). Si transita dallo yuppismo e dall’etica del “voglio tutto” ad un comportamento più maturo e stratificato, ad un’esigenza di maggior senso e linearità. Dalla frenesia del consumo ostentativo, all’immaterialità dei beni e dei servizi. Dal “carpe diem effimero” all’ “effimero duraturo” (Morcellini, 1986). 

 
Il processo di strutturazione narcisistica del sé attraverso il possesso di beni ha prodotto un iperconsumismo che si è ridimensionato solo a partire dagli anni Novanta, a causa della recessione economica internazionale ed italiana. La crisi di un modello delle aspettative crescenti (calo del consumo, diminuzione della voglia di successo, ecc.) ha favorito l’emergere di nuove tendenze di consumo. 

 
Il consumatore degli anni Novanta sembra dotato di maggiore indipendenza e capacità critica nei confronti della pubblicità e delle promesse consumistiche, pur non sfuggendo alla logica della personalizzazione simbolica dell’acquisto (Codeluppi, 1996). Il consumatore esprime un’esigenza di consumo sempre più differenziata e mutevole nel tempo e inoltre effettua le proprie scelte in base a più criteri. Si afferma un azione di consumo più equilibrata e tendente all’autoregolazione: la morale del “Je me pilote” caratterizza il cosiddetto egobuilding, ovvero il tentativo di costruirsi un “Io” attraverso il consumo. 

 
La varietà dei criteri utilizzati è imputabile al moltiplicarsi delle occasioni di consumo e di fruizione, ma è anche il riflesso di un atteggiamento di costante ricerca del nuovo che si manifesta attraverso la moltiplicazione dei luoghi di acquisto frequentati, il peso delle fonti di informazione utilizzate (nasce Internet) ed i tempi dedicati alle diverse fasi delle attività di consumo (CENSIS 1988). 

 
Le tendenze di consumo e le modalità con cui le stesse si manifestano nel singolo consumatore fanno sì che le imprese si trovino di fronte una situazione di crescente complessità: non solo non esiste più un consumatore-tipo verso cui uniformare la produzione, ma la stessa segmentazione appare più difficile. Di conseguenza, le affinità fra consumatori hanno sempre più carattere temporaneo e interessano non la totalità del comportamento dell’individuo bensì specifiche attività di consumo (Codeluppi 1989, Fabris 1995): le imprese pertanto, invece di incentrarsi sul prodotto o sul consumatore sono sempre più portate a privilegiare i criteri che orientano di volta in volta le scelte dei consumatori. 

 
Il trend che più di tutti caratterizza la società attuale è quello che si fonda su una personalizzazione dei modelli di consumo. Disegnare delle tendenze vuol dire accettare il fatto che interessino, nella maggior parte dei casi, solo gruppi ristretti di soggetti, ossia che si configurino come microtrend. E’ come se affiorasse un arcipegalo di piccole isole, ognuna abitata da una distinta tribù. Non si è più in presenza dunque di una “struttura piramidale di acquisizione di prestigio sociale attraverso le merci”, bensì di una “struttura esplosa di micro-universi paritari”. Nel gergo giovanile della Roma di questi anni, ad esempio, hanno attecchito due parole (pariolino ed alternativo) che si rifanno a categorie concettuali dicotomiche, ed abbastanza ricorrenti anche nei decenni passati. Oggi, il “pariolino” e l’”alternativo” non si dispongono lungo una scala sociale che va dall’alto al basso: il pariolino non è precisamente colui che vive al quartiere Parioli e che ha un reddito invidiabile, ma piuttosto un frequentatore di determinati locali (discoteche e club), un estimatore di determinata musica (commerciale) ed un cliente di specifici negozi di abbigliamento. Non è né più ricco, né più povero dell’”alternativo”, che magari ha un abbigliamento grunge, ed ha speso più del “pariolino” per vestirsi in quel modo. E’ semplicemente diverso perché appartiene ad una cultura diversa. Ecco che, dunque, la vecchia logica del consumo individuale anni Ottanta non regge più: il consumo si è fatto personalistico. La moltiplicazione delle identità fa sì che l’individuo non accetti più la moda, anche se fatta a suo uso e consumo (come nella prospettiva individualista), ma cerchi, nell’infinità di mode in corso, quella più significativa per la propria esperienza nell’universo di riferimento. 

 
Inoltre, ciò che caratterizza il consumatore contemporaneo (o il quarto uomo come lo definisce Dell’Aquila) è il suo eclettismo, ossia la sua capacità di operare scelte contraddittorie, estranee a qualunque logica pregressa. Non a caso da punto di vista massmediale, in questi anni cambia il modello comunicativo di riferimento, almeno per le avanguardie di consumo: si passa da una comunicazione broadcast al netcast, alla logica della Rete come territorio mutevole, stratificato in cui sono possibili le interconnessioni più varie e impensabili. 

 
Parallelamente, infatti, si assiste «allo sviluppo ipertrofico delle possibilità di scegliere tra i numerosi beni presenti sul mercato, dei quali aumentano sia la varietà che la velocità di rinnovamento» e anche «alla crescita delle componenti comunicative ed espressive dei prodotti, con l’allargarsi dei confini dei mercati, non più definiti da un insieme di prodotti che svolgono la medesima funzione d’uso, ma da tutto ciò che può entrare in concorrenza simbolica per occupare il tempo del consumatore e per soddisfare i suoi bisogni immateriali in un determinato momento» (Codeluppi, 1996). 

 
Paradossalmente questo fenomeno di individualizzazione del consumo, colpisce senza distinzione tutta la sfera dei consumatori, generando una vera e propria “società individualista di massa”: si afferma la logica dello “spendere bene” (ma comunque spendere). Non bisogna però pensare che il prodotto, come il soggetto, abbia un’identità debole, ma piuttosto che essa sia diventata molteplice e polisemica. O meglio, più che i prodotti, è la comunicazione pubblicitaria che può riuscire ad operare in maniera polisemica, producendo ovviamente degli effetti di polisemia su tutto ciò che promuove. Essa può riuscire a contenere una dose sufficiente di ambiguità semantica tale da consentire degli apporti proiettivi e delle interpretazioni assolutamente personali da parte dei consumatori. 

 
Se in precedenza ciò che era necessario dominare era l’oggetto in quanto status symbol, oggi bisogna dominare i significati che veicola, significati che si fanno post-materialistici a tutti gli effetti, in quanto non dominano le dimensioni della sopravvivenza, bensì quelle del tempo, dello spazio, dell’estetica, dell’immagine, dell’emozione e del gioco. Ciò vuol dire anche che la “competenza” (semioticamente parlando) non proviene più dall’avere, ma dal saper-fare: ossia dal saper selezionare e scegliere e combinare i prodotti. Il proprio ruolo all’interno della tribù è determinato da come si naviga all’interno della selva delle merci. 

 
Così la merce viene antropomorfizzata, entra a far parte del vissuto del soggetto e viene investita dal soggetto di un vissuto. «I consumatori possono considerare i prodotti e le marche come delle persone e ricercare perciò con essi quelle valenze psicologiche ed affettive e quelle soddisfazioni interiori che non riescono più a trovare nei legami di tipo interpersonale» (da notare che si realizza il passaggio dalla merce alla marca, ossia dall’oggetto al suo simbolo). Nei ragionamenti della Klein (2000) questo passaggio è chiaro: ciò che indosseremmo, o consumeremmo è un oggetto vivente al quale daremmo vita proprio nell’atto della consunzione. Ci trasformeremmo così, per opera del marketing delle marche, in una sorta di pubblicità vivente, che alimenta perversamente il suo meccanismo parassitario di sfruttamento del vissuto del soggetto.Nel momento in cui la merce diventa un oggetto sensibile (in quanto coinvolge i cinque sensi dell’uomo-animale), il coinvolgimento individuale del soggetto è accresciuto, così anche quello psicologico del consumo. 

 
Frontiera di questo investimento semantico sul prodotto, sarà sicuramente la sua riduzione a puro stimolo elettronico. Nel momento in cui il denaro diventa impulso elettrico, e la merce stessa essenza bidimensionale che può passare dallo schermo di un computer, il valore degli oggetti risiederà esclusivamente sulla loro natura simbolica, non più tattile, ma polisemica. Questo processo sarà accresciuto dalle sinergie necessarie alla realizzazione di un siffatto sistema economico: il mondo della produzione, della finanza e delle telecomunicazioni saranno costretti ad agire di concerto per la messa in opera di un valore aggiunto che si produce non più a livello di lavoro, ma essenzialmente di flusso: si crea valore nel momento in cui il denaro circola. 

 
Soprattutto nel campo dei consumi culturali, la fruizione di massa diventa sempre più personale: si pensi all’avvento delle tv tematiche, delle “pay per view” (in cui si paga per vedere ciò che effettivamente interessa). Si tratta in definitiva di una estremizzazione del piacere edonistico, ma al tempo stesso consapevole, di una fruizione costruita su misura. Nel caso delle tv via cavo, il consumo segue i ritmi e i tempi del suo fruitore: i film, ad esempio, vengono replicati costantemente, senza che lo spettatore corra il rischio di doversi adeguare a “ciò che passa il convento”, come nel caso della vecchia, e tuttora viva, tv generalista. 

 
Ciononostante, accanto a questa personalizzazione estrema, sono emerse forme di consumo più consapevoli della struttura sottostante le dinamiche di produzione nell’economia globalizzata. Proprio grazie all’avvento del digitale e delle nuove tecnologie della comunicazione, si assiste da un lato all’invasività sempre più forte del product marketing, dall’altro alla nascita di movimenti antagonisti al sistema delle “multinazionali del desiderio”. È emersa una nuova tipologia di individui, insomma, che, pur non aderendo in pieno alle teorie anti-globalizzazione, si mostra sensibile ad un nuovo modo di intendere il consumo, investendolo di forti valenze etiche. Si pensi all’avvento del commercio equo e solidale, alla crescita dei circuiti commerciali alternativi, o alle forme di boicottaggio: tutte pratiche che rispondono ad un’esigenza di beneficiare di un bene che non sia solo buono, dal punto di vista della prestazione, ma che garantisca determinati standard etici (che non sia stato prodotto sfruttando il lavoro di minori, o a danno dell’ambiente). Ovviamente, non è solo una questione di altruismo: il consumatore degli anni Novanta non è più civile di quelli che l’hanno preceduto, ma semplicemente più capace di discernere cosa comprare e perché all’interno del grande mercato-mondo. In definitiva, parallelamente alle vecchie forme di consumo, sta emergendo quella che Morace (1990) ha definito “ecologia del consumo”. 

 
Appare evidente che il consumo in quanto fenomeno sociale sia ben lungi dal trovare un assetto definitivo, persino agli occhi dei suoi interpreti più massimalisti. Magari tra qualche anno si dovranno aggiungere nuovi paradigmi alla parabola del consumo e alle sue tante declinazioni. Sarà dalla contaminazione e dall’intreccio tra cambiamenti culturali e di costume, tra gli alti e i bassi dell’economia mondializzata, tra i modelli imposti da vecchi e nuovi media, tra le “trovate” di pubblicitari e persuasori occulti, nonché dall’inalienabile percezione del singolo individuo, che emergeranno nuovi bisogni e nuovi modi di agire nel tentativo di soddisfarli. Nell’entropia del sistema nulla si crea, nulla si distrugge. Saremo sempre gli stessi, noi consumatori, sempre diversi. 


Ugo Esposito e Lorenzo Pierfelice 

Suggerimenti bibliografici