poesie fatte in casa
11.
La nostra casa era quella terra
concimata di asce e parole.
Ad essa gli amici accorrevano
come si va a celebrare il pane
e i bambini sedevano al patio
ragionando di mostri e mestieri.
La nostra Repubblica era
quel giorno abitato dai giorni,
le donne e i vecchi che avevamo incontrato
e le osterie - tutte - dove eravamo stati serviti
e le lingue – tutte – che non avevamo capito.
Ci era Patria
il confine varcato,
la parata senza bandiere,
gli aquiloni folli al cielo,
come un solletico di carta velina,
a proclamare – tutti –
il trionfo dei vinti.
10.
Confesso di avere degli affetti stabili:
uno scorcio da un capanno sul colle
o il ramo pigro del limone,
la gatta che non so come si chiami
e che chiamo Euridice.
Dovrebbero esserci, poi,
un amico, un barbiere, un fratello.
Testimonio di avere degli affetti stabili,
ma anche degli stabili a cui sono affezionato:
forse la casa di via del Podere Rosa,
il bar al rifornimento sulla statale,
il motel dove il tuo sesso sapeva di aprile
o il secco piezometro delle Murge,
impalato e stinto come un alieno albino.
Confesso infine che un po’ tutti, oggi,
mi sembrate famigli e complici.
È la regola dei tre po’:
un po’ vi amo,
un po’ vi odio,
un po’ vi ignoro.
9.
Se i morti di Bergamo potessero parlare
non ci direbbero di ripartire.
I morti di Bergamo,
come tutti i morti,
sono (dis)fatti così:
loro sono quelli che
se rimani a secco nel Nevada
scendono dall’auto
e camminano nel Nevada.
Sono semplici, i morti,
- e anche di poche parole -
non dicono mai
quello che vorremmo sentirci dire.
Ci avete fatto caso?
Nei sogni i morti sorridono senza motivo
come stupide bambole
cui abbiamo incollato gli occhi.
I morti,
anche quelli di Bergamo,
forse preferiscono oziare
nell’esercizio del giorno:
ascoltare come cresce il maggese
o cucire, rammendare un guanto;
parlare per ore, tra i gerani, col vicino
o lodare la linfa testarda del sambuco.
I morti amano odorare di nascosto il bucato,
le sarde sul pane, i capelli dei bambini.
Se i morti di Bergamo potessero parlare
io so
che non parlerebbero.
8.
(quando tutto questo sarà finito)
mi leggerete ancora
i nomi dei morti?
[I numeri delle bare
prêt-à-porter
come offerte di surgelati
al discount?]
Ditemi che avrete ancora
qualche slide di circostanza
per chi si ammala
per chi guarisce
per chi ancora sta
(colpevole e vittima)
come un becco di seppia
al puzzo dei porti.
7.
È un po’ come
un lutto in estate
quando fuori le cicale
sfregano il sesso al cielo
e gli amici bevono birre
salutando ragazze nuove.
Dentro, invece,
il rumore accecante
dei mattini bianchi.
Un compressore
lasciato acceso,
tra l’encefalo
e il pigiama.
6.
Spesso
in sogno
esco di casa
e in pochi ghirigori
di scale e vicoli
sono in posti mai visti:
vecchie cisterne di rane a pois,
scalinate di cattedrali
per santi improbabili e scugnizzi
e condomìnii alati
e saline di zuccheri
filati a mano.
Ogni mattino
ricostruisco la mappa
di questa meraviglia.
Ti dico
“ti ci porterò,
vedrai”
Se sarà ancora lì,
se ancora saremo
svegli nel sogno.
5.
Alla fine eravamo noi
il miracolo all’insaputa dei preti,
l’ora mai chiesta
il greto zitto dei fiumi, la fonte
da cui non abbiamo bevuto
il nido non visto, l’umidità
che esce e asciuga,
il declinare
senza edizioni straordinarie.
Alla fine eravamo noi
quel paese abbandonato,
al quale nessuno ritorna.
4.
Dentro di noi,
ogni giorno
fai festa.
Lo annuncia
il tuo vocione recuperato,
lo sferragliare di trapani e bulloni.
Quando tutto questo sarà finito,
i tuoi figli sapranno
accendere il fuoco,
travasare l’olio,
invitare i passanti.
Anche ora
che l’esercito
porta via i morti,
noi ti lasciamo
far festa
dentro di noi.
Solo così,
ancora,
ritorni
e rimani.
3.
Cerco un euro per il carrello
e noto questo barbone
- una pietra sola e luccicante
nel campo arato.
Mi riprometto che gli darò quella moneta,
non appena uscirò dal supermercato.
Quando esco, vedo che
sulla panchina non c’è più nessuno.
È rimasta solo la sua giacca
come un pezzo di cuoio
masticato da un rinoceronte.
Eccolo, si è solo spostato
qualche metro più in là,
occupa un quadrato di sole
contro la saracinesca abbassata
di un fast food.
Non chiede elemosina,
non si trascina come uno zombie
verso di me.
Un barbone che non tende la mano
può essere solo un uomo
che respira l’ora del mattino.
Sorride. Ha gli occhi chiusi. Si gode il primo sole.
Sono carico di buste e mi sento povero.
Non lo disturbo.
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2.
I giorni si stanno scaldando.
So che un pesco e un mandorlo
aprono bocche rosa al cielo.
E fuori di qui
le zanzare fanno l’amore
malgrado noi.
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1.
Chi mi avrebbe dovuto dire
che l’eroe sarebbe stato
chi restava a casa?
[Chi sarebbe uscito al mattino
nell’aria al neon
per impilare lo stracchino
negli scaffali della Conad]
Chi mi avrebbe dovuto dire
che avrei ballato i Franz Ferdinand
da un vecchio Telefunken
per coprire il rumore del tramonto?
Era il nostro disaster movie
(e avevamo calzini improbabili).
Che bella la vita,
a una vita di distanza.