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venerdì 13 marzo 2020

poesie fatte in casa

11.

La nostra casa era quella terra 

concimata di asce e parole.

 

Ad essa gli amici accorrevano

come si va a celebrare il pane

e i bambini sedevano al patio

ragionando di mostri e mestieri.

 

La nostra Repubblica era

quel giorno abitato dai giorni,

le donne e i vecchi che avevamo incontrato

e le osterie - tutte - dove eravamo stati serviti

e le lingue – tutte – che non avevamo capito.

 

Ci era Patria

il confine varcato,

la parata senza bandiere,

gli aquiloni folli al cielo,

come un solletico di carta velina,

a proclamare – tutti –

il trionfo dei vinti.



10.


Confesso di avere degli affetti stabili:

uno scorcio da un capanno sul colle

o il ramo pigro del limone,

la gatta che non so come si chiami

e che chiamo Euridice.

 

Dovrebbero esserci, poi,

un amico, un barbiere, un fratello.

 

Testimonio di avere degli affetti stabili,

ma anche degli stabili a cui sono affezionato:

forse la casa di via del Podere Rosa,

il bar al rifornimento sulla statale,

il motel dove il tuo sesso sapeva di aprile

o il secco piezometro delle Murge,

impalato e stinto come un alieno albino.

 

Confesso infine che un po’ tutti, oggi,

mi sembrate famigli e complici.

 

È la regola dei tre po’:

un po’ vi amo,

un po’ vi odio,

un po’ vi ignoro.



9.


Se i morti di Bergamo potessero parlare

non ci direbbero di ripartire.

 

I morti di Bergamo,

come tutti i morti,

sono (dis)fatti così:

loro sono quelli che

se rimani a secco nel Nevada

scendono dall’auto

e camminano nel Nevada.

 

Sono semplici, i morti,

-  e anche di poche parole -

non dicono mai 

quello che vorremmo sentirci dire.

 

Ci avete fatto caso?

Nei sogni i morti sorridono senza motivo

come stupide bambole

cui abbiamo incollato gli occhi.

 

I morti,

anche quelli di Bergamo,

forse preferiscono oziare

nell’esercizio del giorno:

 

ascoltare come cresce il maggese

o cucire, rammendare un guanto;

 

parlare per ore, tra i gerani, col vicino

o lodare la linfa testarda del sambuco.

 

I morti amano odorare di nascosto il bucato,

le sarde sul pane, i capelli dei bambini.

 

Se i morti di Bergamo potessero parlare

io so

che non parlerebbero.



8.

(quando tutto questo sarà finito)

 

mi leggerete ancora

i nomi dei morti?

 

 [I numeri delle bare

prêt-à-porter

come offerte di surgelati

al discount?]

 

Ditemi che avrete ancora

qualche slide di circostanza

 

per chi si ammala

 

per chi guarisce

 

per chi ancora sta

 

(colpevole e vittima)

 

come un becco di seppia

 

al puzzo dei porti.



7.

È un po’ come

un lutto in estate

quando fuori le cicale

sfregano il sesso al cielo

e gli amici bevono birre

salutando ragazze nuove.

 

Dentro, invece,

il rumore accecante

dei mattini bianchi.

Un compressore

lasciato acceso,

tra l’encefalo

e il pigiama.



6.


Spesso

in sogno

esco di casa

e in pochi ghirigori

di scale e vicoli

sono in posti mai visti:

 

vecchie cisterne di rane a pois,

scalinate di cattedrali

per santi improbabili e scugnizzi

 

e condomìnii alati

e saline di zuccheri

filati a mano.

 

Ogni mattino

ricostruisco la mappa

di questa meraviglia.

 

Ti dico

“ti ci porterò,

vedrai”

 

Se sarà ancora lì,

se ancora saremo

svegli nel sogno.



5.


Alla fine eravamo noi

 

il miracolo all’insaputa dei preti,

l’ora mai chiesta

il greto zitto dei fiumi, la fonte

da cui non abbiamo bevuto

 

il nido non visto, l’umidità

che esce e asciuga,

il declinare

senza edizioni straordinarie.

 

Alla fine eravamo noi

quel paese abbandonato,

al quale nessuno ritorna.



4.

Dentro di noi,

ogni giorno

fai festa.


Lo annuncia

il tuo vocione recuperato,

lo sferragliare di trapani e bulloni.

 

Quando tutto questo sarà finito,

i tuoi figli sapranno

accendere il fuoco,

travasare l’olio,

invitare i passanti.

 

Anche ora

che l’esercito

porta via i morti,

noi ti lasciamo

far festa

dentro di noi.

 

Solo così,

ancora,

ritorni

e rimani.



3.

Cerco un euro per il carrello

e noto questo barbone

 

- una pietra sola e luccicante

nel campo arato.

 

Mi riprometto che gli darò quella moneta,

non appena uscirò dal supermercato.

 

Quando esco, vedo che 

sulla panchina non c’è più nessuno.

È rimasta solo la sua giacca

come un pezzo di cuoio

masticato da un rinoceronte.

 

Eccolo, si è solo spostato

qualche metro più in là,

occupa un quadrato di sole

contro la saracinesca abbassata

di un fast food.

 

Non chiede elemosina,

non si trascina come uno zombie

verso di me.

 

Un barbone che non tende la mano

può essere solo un uomo

che respira l’ora del mattino.

 

Sorride. Ha gli occhi chiusi. Si gode il primo sole.

 

Sono carico di buste e mi sento povero.

Non lo disturbo.


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2.


I giorni si stanno scaldando.

 

So che un pesco e un mandorlo

aprono bocche rosa al cielo.

 

E fuori di qui

le zanzare fanno l’amore

malgrado noi.

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1.

Chi mi avrebbe dovuto dire

che l’eroe sarebbe stato

chi restava a casa?

 

[Chi sarebbe uscito al mattino

nell’aria al neon

per impilare lo stracchino

negli scaffali della Conad]

 

Chi mi avrebbe dovuto dire

che avrei ballato i Franz Ferdinand

da un vecchio Telefunken

per coprire il rumore del tramonto?

 

Era il nostro disaster movie

(e avevamo calzini improbabili).

 

Che bella la vita,

a una vita di distanza.